martedì 4 novembre 2014

Elena Ferrante, o di come i critici italiani sappiano criticare quel poco di buono che riusciamo ad esportare

Questo è un post un po’ polemico e non si tratta di una recensione, bensì di un commento su un articolo uscito un mesetto fa su La stampa e che riguarda Elena Ferrante. Ho scoperto questa scrittrice grazie alla trilogia napoletana de “L’amica geniale” (per rinfrescarvi la memoria, avevo scritto del primo libro l’anno scorso e trovate il post qui). Ero rimasta piacevolmente colpita dalla scrittura vera, genuina, senza fronzoli di questa autrice, che avevo cominciato a leggere con molti dubbi. Non sono una grande amante della letteratura italiana contemporanea (leggasi degli anni 2000), purtroppo neglianni ho letto molti libri che ho sempre trovato un po’ banali nello stile e nel contenuto, come se strizzassero sempre l’occhio ai baci Perugina quando scrivono d’amore o agli editoriali con violini in sottofondo di Studio Aperto quando parlano di cronaca. Come ho già scritto più volte, certi romanzi italiani mi sembrano una versione stampata dei film di Muccino, in cui tutti urlano e strepitano per mascherare il fatto che non si stanno dicendo un bel niente. Ovviamente è un’opinione del tutto personale e puntualizzo che ci sono moltissime eccezioni (Ammaniti, per esempio; Baricco, quasi sempre; Simonetta Agnello Hornby). Comunque, ero partita a leggere “L’amica geniale” con molte remore per poi ritrovarmi completamente coinvolta non solo dalla bella scrittura della Ferrante, ma anche dalla storia di Lenuccia e Lila, dalla loro lotta per emanciparsi dallo squallore della povertà e della violenza. L’attenzione di Elena Ferrante nel descrivere la condizione di questi vinti del dopoguerra napoletano mi aveva molto ricordato (seppur ovviamente in un contesto del tutto differente) iromanzi di Vasco Pratolini. Premettendo che (come ben sapete) non sono una critica letteraria, sono solo una lettrice assidua ma amatoriale, mi ha molto stupita questo articolo, uscito su “La Stampa” a inizio ottobre (qui il link), in cui l’autore, Paolo di Paolo, si scaglia con un accanimento del tutto fuori dalle righe contro Elena Ferrante. Innanzitutto mi permetto di obiettare alla lista di autori italiani che vengono citati tra i “famosi all’estero” in cui viene dimenticato Primo Levi (che invece è probabilmente l’autore più conosciuto, specialmente negli Stati Uniti). Ma passiamo alla critica alla Ferrante. Di Paolo si scaglia contro l’anonimato e la segretezza della scrittrice, come se metterci la faccia fosse un obbligo morale per un’autrice (donna?). Arriva persino a criticare il suo nome (il giochino delle assonanze con Elsa Morante sarebbe da discutere con un buono psicologo) e la sua potenziale biografia. L’apoteosi si raggiunge quando la trilogia napoletanaviene paragonata ad una nota soap opera. Insomma. Come Di Paolo asserisce “Qualcosa non torna” ma sinceramente a non tornare è questo lapidario commento. I gusti sono gusti, ma l’impressione è che spesso la critica nostrana invece di gioire per il successo di un autore che finalmente è esportabile e vendibile al di fuoridei confine nazionali, tenti con ogni forza di distruggere quanto di buono vi è, quasi con invidia e livore. Se sul New Yorker non si sprecano elogi per la scrittura della Ferrante e sul Guardian sono usciti recentemente due bellissimi articoli (uno in risposta a Di Paolo, per altro) in cui si discute della sua possibile identità e si elencano i suoi illustri fans (Jhumpa LahiriZadie Smith, tanto per citarne un paio) e si elogia la sua opera, lunga ormai 20 anni (qui il link al secondo articolo), sui giornali italiani la Ferrante si critica, riducendo la sua opera ad una questione di “faccia” e di identitàDa profana mi domando cosa Di Paolo abbia letto e cosa trovi di così assurdamente scabroso nel voler mantenere l’anonimato (anche si trattasse di una mera manovra commerciale). Un libro non è il suo autore. Come mi ha insegnato unprofessore al liceo (che non ci interrogava mai sulle biografie degli autori che studiavamo in classe), la vita di uno scrittore può servire in alcuni casi a capire perchéquesti sia arrivato a scrivere un’opera, ma questa trascende l’autore stesso e non deve essere giudicata sulla base della sua biografia. Questa è la mia regola generale e continuerà ad esserlo. E continuerò anche ad amare le opere della Ferrante (e di altri notissimi autori che nella vita hanno combinato le più deprecabili azioni ma che hanno anche prodotto grandissimi capolavori) e la sua aura di mistero. I dubbi sul metro di misura di alcuni critici tuttavia resta.

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