martedì 26 marzo 2013

"L'acustica perfetta", Daria Bignardi


Col suo romanzo precedente “Un karma pesante” (recensione di Letture Precarie qui), la Bignardi mi aveva positivamente colpita per la sua scrittura bella e curata, per la sua sensibilità nei confronti del dolore e per la storia di questa donna spezzata, Eugenia. Ne “L’acustica perfetta” la voce narrante non è più quella di un personaggio femminile ma è quella di Arno, violoncellista alla Scala di Milano, padre di tre bambini e sposato con Sara, di cui è innamorato da tutta una vita. La vera protagonista del romanzo è lei che, una mattina, quattro giorni prima di Natale, se ne va di casa, lasciando al marito un biglietto in cui spiega che la sua è una scelta obbligata. Passata la rabbia e lo sconcerto iniziali, Arno si mette sulle sue tracce ripercorrendo a ritroso i sedici anni che i due avevano trascorso lontani, cercando qualche traccia che lo conduca a lei e scoprendo, via via, un mondo doloroso e inaspettato che Sara gli ha sempre tenuto nascosto. Ma la ricerca della moglie ben presto diventa anche ricerca di se stesso.
Questo romanzo mi ha lasciato interdetta. Da un lato la Bignardi si conferma una buona scrittrice e una sensibile osservatrice delle sofferenze umane. È difficile descrivere personaggi così complessi, con storie così complicate e dolorose alle spalle, se non si possiede una forte empatia e un grande spirito di osservazione. Però in questa storia alcune cose non tornano. Non sono riuscita mai del tutto a capire la fuga di Sara, nemmeno quando la fitta rete dei suoi misteri veniva districata (di carattere la fuga, ancora se rocambolesca, senza saluti, senza spiegazioni, non la riesco a concepire. I problemi normalmente li affronto a muso duro); ma neppure la reazione di Arno (soprattutto nel finale del libro, in cui si addossa ogni colpa e responsabilità e addirittura benedice la nuova vita di Sara, cosa sinceramente non umanamente possibile, dopo così pochi mesi da una rottura, per quanto mi riguarda. Ma sono opinioni personali ovviamente. Probabilmente sono decisamente più egoista di Arno); né le reazioni di tutti coloro che circondano la coppia: i suoceri che coprono la fuga, i figli che non sembrano neanche accorgersi dell’assenza della madre (per quanto la Bignardi ci spieghi questa reazione per bocca della dottoressa Migliore, tirando in ballo addirittura Steiner, io penso a me a otto anni e se mia madre mi avesse abbandonata, senza una parola a quattro giorni da Natale, sarei finita al manicomio.). Non so. A tratti ho trovato il tutto davvero esagerato, fuori dal normale, dall’umano. Il personaggio più vero, in quanto a reazioni e a parole, forse mi è parso Massimo, che parla poco ma mai a sproposito e che si dimostra nonostante tutto un amico fedele.
Mi ha convinta solo a metà nonostante sia una lettura complessivamente piacevole.

"La Fata Carabina", Daniel Pennac


Sono rimasta talmente coinvolta dalla lettura de “Il paradiso degli orchi” che mi sono subito lanciata a capofitto in quella de “La fata Carabina”, secondo capitolo della saga di Malaussène. Sono passati pochi mesi dagli eventi narrati nel primo libro, Benjamin Malaussène ha perso il lavoro al Grande Magazzino ma è stato prontamente assunto dalla direttrice di una prestigiosa casa editrice parigina, la crudele Regina Zabo. Il suo compito è sempre lo stesso, quello che gli riesce meglio: il capro espiatorio. La sua famiglia è sempre strampalata e ora anche la Mamma è tornata, più incinta che mai, all’ormai decimo mese di gravidanza. Ad essere cambiato, rispetto al racconto precedente, è però il clima. Belleville si è incupita, una serie di tragici eventi si susseguono e tutti hanno per protagoniste persone anziane: vecchiette insospettabili freddano poliziotti a colpi di P38, un assassino seriale sgozza con un rasoio anziane donne per rubare loro la pensione, ma soprattutto una misteriosa infermiera comunale regala amfetamine ai pensionati soli e depressi. Possibile che questi fatti siano tutti correlati? Questa è l’ipotesi di Zia Julia, ormai Julie, che indaga per una delle sue inchieste giornalistiche e nel frattempo affida ai Malaussène gli anziani tossici per una casalinga riabilitazione. Ogni ragazzo ha in custodia un anziano, che cerca di distrarre e tenere occupato per evitare che si metta alla ricerca della propria dose. In particolare Thérèse sfrutta la sua arte divinatoria per tirar su loro il morale e donare nuove speranze. Alla morte dell’ispettore Vanini, anche la polizia, e in particolare il misterioso ispettore Pastor, nei suoi maglioni di lana, e l’ispettore Thian che vive nel quartiere sotto le mentite spoglie della vedova Ho, si mette finalmente ad indagare sugli strani fatti di Belleville e, manco a dirlo, tutte le piste sembrano portare al solito capro espiatorio, il santo Benjamin Malaussène. Riuscirà questa volta a dimostrare la sua innocenza e a smascherare i veri colpevoli?
Anche in questo romanzo Pennac riesce saggiamente a creare un noir dal ritmo travolgente. Ogni tassello torna lentamente al suo posto, nonostante questa volta la trama sia ben più complicata che ne “Il paradiso degli orchi”. Il racconto è talmente avvincente che difficilmente si riesce a chiudere il libro, se ne resta calamitati. In questo caso il clima si fa decisamente più cupo e le violenze più efferate, ma Pennac non perde mai la sua scrittura spensierata e ironica. Se iniziate non potrete più smettere.

martedì 19 marzo 2013

"Il paradiso degli orchi", Daniel Pennac


Altro regalo molto gradito (la mia fama di lettrice incallita mi precede e alla mia partenza molti mi hanno rifornita di preziosissima materia prima per affrontare, come si deve, il mio viaggio verso l’ignoto. In questo caso grazie a Veronica e alla sua passione sfrenata per Pennac). Ho iniziato la saga dei Malaussène e in due giorni ho divorato il “Paradiso degli orchi” (ora sono già in dirittura d’arrivo de “La fata carabina”, preparatevi.). La trama è apparentemente semplice, ma i protagonisti di questa serie di gialli dalle venature noir non lo sono affatto. Siamo nella Parigi degli anni Ottanta e in un frequentatissimo grande magazzino del centro un uomo, dall’aspetto tanto comune da passare inosservato e dall’età indefinibile, viene chiamato insistentemente dall’altoparlante. È il Signor Benjamin Malaussène, assunto dal grande magazzino come “capro espiatorio”. È infatti lui che ad ogni reclamo della clientela si presenta, prendendosi ogni colpa e reagendo con tanta mestizia e disperazione alle lamentele da costringere, per buon cuore, i clienti a ritirare le denunce. Ma Malaussène di strambo non ha solo il lavoro: è figlio di una donna dai mille amori e dalle mille gravidanze, sempre in giro per il mondo, padrone di Julius, un enorme cane epilettico e dall’odore repellente, e fratello maggiore e tutore di una sfilza di ragazzi dal padre ignoto e dalle particolari doti e attitudini: Louna aspetta un bambino dal suo grande amore ma questi la vuole abbandonare per paura della paternità; Clara è un’appassionata fotografa ed osservatrice del mondo, Thérèse, una cartomante e chiaroveggente dalle doti fuori dal comune (anche se, come una novella Cassandra, difficilmente viene creduta), Jérémy, poco avvezzo allo studio ma bravissimo con le scienze applicate, ed infine il Piccolo, dagli occhiali cerchiati di rosa e che sogna Orchi di Natale divoratori di bambini. Alla già complicata vita del Signor Malaussène si unisce anche una serie di efferati omicidi che vanno in scena nel grande magazzino: anziani avventori vengono fatti esplodere, senza lasciare indizi e senza apparenti motivi, nel bel mezzo della folla intenta a fare acquisti. E che capro espiatorio sarebbe Malaussène se non venisse  immediatamente sospettato delle violente dipartite? Solo grazie all’aiuto della sua prodigiosa famiglia e di una bella giornalista misteriosa, zia Julia, Malaussène potrà aiutare la giustizia ad incastrare il vero serial killer.
Pennac anche in questa saga si dimostra un narratore dalle doti straordinarie, grazie alla sua ironia dissacrante e al ritmo frenetico (spesso quasi confusionario) che imprime alle sue storie, sempre divertenti e mai banali, tra colpi di scena, sarcasmo e un mistero oscuro da risolvere. Ideale per le fredde giornate d’inverno, per perdersi in una Parigi fantasiosa e quasi fiabesca.

"Il mare non bagna Napoli", Anna Maria Ortese


Non avevo mai letto Anna Maria Ortese e un mio carissimo amico (grazie Luca!) me l’ha fatta scoprire con un regalo speciale. Prima della mia partenza mi ha regalato “Il mare non bagna Napoli”, dicendosi certo che l’avrei apprezzato. Non si era sbagliato. Fin dal primo racconto la voce schietta, spesso ruvida della Ortese, mi ha catapultata dalla grigia Inghilterra alla città di Napoli. Però quello che la scrittrice ci offre in questa raccolta di racconti, non è il solito ritratto della bella perla del sud, del suo folklore, del sole e del mare, della sua popolazione spensierata e allegra. La Ortese senza pietà alcuna ci porta nelle viscere più segrete della Napoli del dopoguerra, negli inferi di una città che non sembra vivere ma trascinarsi, come un’enorme bestia morente che arranca in una palude. In “Un paio di occhiali” Eugenia, di otto anni, è cresciuta nella nebbia della sua miopia e da essa è stata sempre protetta, come da uno scudo, contro le brutture del mondo. In “Interno familiare” Anastasia è costretta a scegliere tra la propria famiglia, per cui lavora come schiava e dalla quale viene caricata di responsabilità, fino a sentirsene oppressa, e la propria segreta e insperata felicità personale. Con “Oro a Forcella” la Ortese ci conduce nei banchi dei pegni dei quartieri popolari, dove le donne si recano per impegnare i loro miseri gioielli e preziosi in cambio di quel poco che basta per far campare la famiglia. Ne “La città involontaria” invece giungiamo negli inferi di una città morente e priva di speranze. Il degrado e la miseria trasformano gli esseri umani in larve, in ombre malate e denutrite, che sopravvivono nella loro stessa putrefazione. Ed infine con “Il silenzio della ragione” la Ortese passa a criticare aspramente il contesto culturale della città, ed in primis gli intellettuali e gli scrittori di punta del suo tempo. Un racconto che probabilmente non a caso chiude il libro, quasi come a dire che in fondo dietro a tanto degrado e decadenza vi sia una spiegazione non solo politico-economica ma anche un assopimento di quelle che sono state le grandi menti della Napoli anni Cinquanta e più in generale del suo fervore culturale.
A causa di questa opera la Ortese è stata accusata di odio nei confronti di Napoli e, anche per questo motivo, negli anni seguenti all’uscita dell’opera (1953) abbandonò del tutto la sua città. La mia impressione di lettrice non è stata quella di leggere odio tra le righe. In ogni parola, per quanto pietosa e per quanto dura, al più coglievo disperazione, sconforto, voglia di riscatto. Il fatto stesso che le storie vedano protagoniste donne coraggiose, che vivono ogni giorno come una lotta dura a cui non si sottraggono, accende un barlume di speranza anche nelle tenebre delle peggiori condizioni umane. Forse sì, si tratta di una discesa verso gli inferi, ma nei gironi danteschi napoletani, qualcosa di vivo e palpitante in fondo sembra rimanere: il coraggio delle donne, madri, mogli, sorelle, che si fanno carico delle vite dei loro cari, cercando di traghettarle in acque migliori. Una bella pagina della letteratura italiana.

lunedì 4 marzo 2013

"Pastorale americana", Philip Roth

"...Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di avere ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite... Beh, siete fortunati."
Sono seria. "Pastorale americana" è uno dei libri più complessi, profondi e belli che abbia letto da molti anni a questa parte. Si tratta di una lettura pesante e difficile ma che alla fine vi lascerà davvero molto.
Seymour Levov, detto lo Svedese, è un uomo perfetto: campione sportivo del liceo, marine, sposato con una reginetta di bellezza e proprietario di una fabbrica di guanti di successo. Cosa potrebbe desiderare di più e di meglio per sé e per la propria perfetta famiglia, da ebreo americano? Tutto sembra speciale nella sua vita, sulla sua testa e su quella dei suoi cari sembra splendere sempre il sole. Ma lo scoppio della guerra in Vietnam coinciderà con la lenta e disastrosa deriva non solo della sua famiglia, ma dell'intero sogno americano. Merry, la sua adorata figlia, deciderà di portare in casa la guerra, devastando per sempre le perfette vite dei Levov. Roth chirurgicamente seziona, pagina dopo pagina, la vita dello Svedese e smembra, senza alcuna pietà, tutti i cliché e le illusioni della borghesia americana, destabilizzandola, smontandola, togliendole il suo bell'intonaco perbenista per lasciare solo le crepe di una struttura irrimediabilmente in declino. Levov è cresciuto nelle aspettative generali delle persone che lo circondano e ha costruito un'esistenza intera sui valori borghesi, tentando in ogni sua azione di fare sempre ed esattamente ciò che gli altri si aspettavano da lui. Ma ben presto dovrà fare i conti con le false basi su cui ha allestito il suo teatro di perfezione: il dolore, lo sfacelo di una vita distrutta si abbatteranno su di lui che però, a causa di tutte le costrizioni sociali che ha sempre accettato, si ritroverà ad essere "Un uomo che non arriva mai a scoppiare, che affonda e basta"
Dopo aver letto questo libro sono seriamente sconcertata dalla mancata assegnazione (che si perpetra ogni anno) del premio Nobel per la letteratura a Roth. L'uso affilato della parola, la complessità delle sue strutture narrative, la profonda critica sociale che le sue pagine contengono, non sono prettamente relazionate ad una visione "americana" del mondo (come asserito dall'Accademia Svedese). Roth ci parla dei valori e delle contraddizioni su cui gran parte del mondo occidentale è fondato, pur prendendo ad esempio il contesto statunitense, in cui maggiormente e precocemente rispetto all'Europa il declino della borghesia è cominciato.
Non mi sento di esagerare marcando questo lungo romanzo come un capolavoro indiscusso della letteratura mondiale. Una lettura necessaria.