domenica 9 giugno 2013

"Ferite a morte", Serena Dandini


Avevo scritto questa recensione alcune settimane fa, prima della ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne, siglata ad Istanbul nel maggio 2011 (testo integrale qui), prima che l’ennesima donna fosse ammazzata per mano dell’uomo che amava. Per questo prima della recensione vorrei esprimere alcuni concetti che mi stanno molto a cuore. Il delitto di Fabiana, la ragazza di sedici anni uccisa dal proprio fidanzatino, appena un anno più grande di lei, e poi bruciata, mentre era ancora viva, rimarrà nelle coscienze di molti di noi per molto tempo, probabilmente. Non solo per la giovane età dei protagonisti (quindi anche le nuove generazioni sono cresciute con la cultura del maschio violento e possessore della propria donna? Non si tratta di un concetto arretrato, più da generazione dei nostri padri?), ma anche per la violenza efferata e la freddezza con cui questo femminicidio è stato eseguito. Per le dichiarazioni dell’assassino, per quelle della madre, per l’immagine di una ragazza ferita che lotta per togliere dalle mani del proprio amore-carnefice la tanica di benzina che la brucerà. E poi le numerose, ennesime gaffe dei media, ancora incapaci di trovare le giuste parole per descrivere la violenza che si discostino nettamente dal tipico linguaggio patriarcale, che tende a giustificare in qualche modo subdolo il gesto dell’uomo, ferito, passionale, colto da un raptus (come se un raptus potesse durare un numero infinito di coltellate e il tempo di trovare della benzina e di lottare con la propria donna per poterla finalmente ammazzare). E poi la desolante immagine della Camera dei Deputati vuota durante la discussione del voto per la ratifica del trattato di Istanbul (solo marginalmente mitigata dal voto unanime del giorno seguente), in un momento in cui la violenza sulle donne è una vera e propria emergenza. Ed infine le vacue diatribe tra noi donne, che invece di lottare compatte contro la violenza che quasi ogni giorno conduce alla tomba una di noi, ci mettiamo a discutere di quale donna sia degna di parlare di femminicidio e quale no, tiriamo in ballo l’orgoglio geografico prima dell’orgoglio di essere donne, continuando così in parte a nascondere, omertosamente, certe verità. Che speranza c’è per questo Paese dilaniato dal problema della condizione femminile? La comunicazione, credo. L’educazione, ne sono certa. Educare le donne a non credere nell’amore malato di chi alza le mani (vedi il caso della miss con la milza spappolata che “perdona” il fidanzato), e anche gli uomini, nella consapevolezza del rispetto per la donna, della parità dei generi e dell’assurdità dell’uso della violenza. Questo libro può avere un ruolo in questo processo di presa di coscienza, soprattutto in un momento del genere. Non vogliamo più sentire storie come quella di Corigliano. Buona lettura della recensione.

“Premetto che sono una convinta femminista e che ho molto a cuore la questione del femminicidio. Se vi urtano certi temi, lasciate perdere questa recensione e questo libro. “Ferite a morte” è nato nel 2012 come un progetto teatrale, firmato da Serena Dandini. La scena è scarna e l’attenzione solo focalizzata sulle donne che si alternano sul palco, con le loro storie. Lo scopo era quello di porre l’attenzione sul fenomeno che ogni due o tre giorni colpisce una donna italiana; il cosiddetto “femminicidio”. Perché purtroppo anche in un paese considerato civile come il nostro, ogni anno centinaia di donne muoiono per mano di mariti, fratelli, fidanzati o ex. E qual è il movente? L’essere donna e non essere (nella maggior parte dei casi) un oggetto di proprietà. Per non parlare di tutte coloro che non arrivano alla morte ma semplicemente ricevono la loro dose di botte e umiliazioni quotidiane. È la cultura del rispetto della donna che deve essere modificata e la Dandini cerca di dare un contributo con uno spettacolo teatrale che poi è stato trasposto in questo libretto. Nella prima parte sono riportati i testi dello spettacolo: monologhi di donne ormai morte e ospitate in un ipotetico paradiso delle vittime di femminicidio. Ci sono tutte: la casalinga ammazzata a pugni da un marito brutale, le cronache di morti annunciate per mano di fidanzati ed ex fidanzati violenti, le bambine vittime delle gravidanze selettive nell’est, le donne scomparse e seviziate a Ciudad Juárez, le donne lapidate in Medioriente, le ragazze stuprate e uccise mentre fanno jogging in un parco. Leggendo queste pagine non potrete non pensare a una serie infinita di casi di cronaca di tutti i giorni. Anche se i nomi spesso non sono riportati, è facile riconoscere quei volti e quelle storie che entrano ogni giorno nelle nostre vite, attraverso i telegiornali (quando va bene), i rotocalchi, i plastici delle case degli orrori nei programmi in seconda serata. Un giro del mondo che ci mostra come, pur cambiando gli scenari e i mezzi, ovunque le donne sono ancora vittime di violenza e ingiustizie per il solo motivo di essere donne. Una situazione che è intollerabile e che va superata, ma come? La denuncia, l’informazione e leggi ad hoc possono essere la risposta e Serena Dandini ci illumina, nella seconda parte del libro, con informazioni sulle varie forme di violenza trattate nei suoi monologhi. Numeri spesso impressionanti, ma che fanno capire la portata del problema. Per maggiori informazioni sul progetto visitate www.feriteamorte.it mentre per firmare la petizione della Dandini su Change.org (per chiedere al parlamento e al governo italiano di convocare subito gli stati generali contro la violenza) potete cliccare qui.
So che spesso non ci rendiamo conto e siamo noi donne le prime ad adattarci a certi comportamenti, dati per normali, degli uomini della nostra vita. Ma leggere questi monologhi, così veri, così drammatici ma raccontati con un linguaggio leggero e spesso comico, è davvero straziante. Una lettura che davvero consiglio sia alle donne (per prendere un po’ di coscienza sulle varie sfumature che la violenza può assumere) ma anche agli uomini, che spesso non si rendono conto della gravità del fenomeno e hanno difficoltà a capire la differenza tra omicidio e femminicidio (anche gli uomini migliori, istruiti, educati e che non farebbero mai il minimo male alla propria compagna).”

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